Assegno ordinario di invalidità: quando il 67% d’invalidità non basta

La perdita del 67% della capacità lavorativa è una delle condizioni a fondamento dell’assegno ordinario di invalidità. Ma talvolta non basta.

Assegno ordinario di invalidità 2

Ogni percentuale di invalidità civile riconosciuta dalla Commissione Medica addetta a esprimersi su una data persona, presentante la domanda di assegno ordinario di invalidità, comporta l’acquisizione di determinati diritti e agevolazioni. Tali tutele erogate al contribuente hanno perlopiù carattere economico, assistenziale e sanitario. Nella guida qui presentata scenderemo nel dettaglio sulle forme di garanzia previste in base alla situazione invalidante. Più esattamente, andremo a vedere quando la percentuale di invalidità del 67 per cento non è sufficiente per accedere alla prestazione richiesta dal contribuente.

Assegno ordinario di invalidità, talvolta la menomazione del 67 per cento non è sufficiente: ecco perché il legislatore applica una disciplina differente

Assegno ordinario di invalidità 2

Malgrado il legislatore italiano abbia fissato la percentuale minima per ottenere l’assegno ordinario di invalidità al 67 per cento, talvolta la soglia non è sufficiente per aver diritto alla prestazione richiesta. Difatti, capita che l’invalidità civile preveda la decurtazione della capacità lavorativa generale ma non specifica.

Mentre il riconoscimento dell’invalidità civile trae fondamento da tabelle che si riferiscono all’eventuale diminuzione della capacità lavorativa generica, il riconoscimento del diritto all’assegno ordinario di invalidità si basa sulla misurazione della capacità di prestatore d’opera inerente alle specifiche attitudini del reclamante.

Dunque, per assurdo due individui dalla stessa tipologia di menomazione, ma con un mestiere differente, possono trovarsi in due posizioni opposte. In parole povere, può accadere che ad uno venga attribuito il diritto all’erogazione della somma, ma all’altro no. Già, per quanto la cosa suoni paradossale, una situazione del genere non è affatto remota. Anzi, diciamo che per un esperto nel campo si tratta piuttosto di una circostanza piuttosto frequente.

Un esempio pratico

La colpa (se di colpa è lecito parlare…) non è di chi fa applicare le leggi, ossia del giudice, bensì di chi le ha scritte. È l’idea a monta il nocciolo della questione e, per permettere di afferrare a pieno il concetto, crediamo non ci sia davvero nulla di meglio se non servirci di un esempio concreto. Ipotizziamo che la persona reclamante l’aiuto economico dello Stato abbia subito una perdita degli atti inferiori. Ebbene, la corresponsione dell’importo non è garantita, ma dipende da caso a caso.

Se è un muratore, un operatore ecologico o un magazziniere, ovvero mestieri dove l’utilizzo degli arti è fondamentale per espletare a pieno alle relative mansioni, otterrà l’ammontare e senza troppe difficoltà. Il discorso cambia, invece, in misura radicale qualora il problema vada a riguardare un contabile. Essendo un lavoro che si svolge in modalità sedentaria, ecco allora insorgere le difficoltà. In tal caso non avrà diritto all’assegno ordinario di invalidità. Quello del contabile è un semplice esempio, a cui potremmo tranquillamente sostituire la professione di un dattilografo, un architetto  o un grafico.

Assegno ordinario di invalidità: il motivo della riduzione della capacità lavorativa sta alla base delle valutazioni

Insomma, la riduzione della capacità lavorativa occorre valutarla in relazione alla professione svolta, poiché in talune circostanze la patologia invalidante, pur dando diritto a una percentuale d’invalidità, non riduce la capacità dell’istante. Tutto dipende, pertanto, dalla professione svolta e da quanto la patologia o la menomazione compromette l’abilità del singolo individuo di far fronte alla mansione affidata.

Ecco perché, anche se sono stati messi dei paletti generici nella definizione della materia, alla fine la corresponsione o meno dell’importo varia dalle singole esigenze della persona che richiede aiuto al potere centrale. Il medico potrà pure riconoscere la riduzione della capacità lavorativa del reclamante fino a un terzo, ma non arrivare comunque l’assegno ordinario di invalidità.

Facendo mente locale, affinché una persona abbia facoltà di definirsi invalido civile occorre una percentuale minima di invalidità pari al 33 per cento. Tale valore attesta la riduzione della capacità lavorativa di un terzo che comporta quindi una compromissione fisica o psichica. Il decreto emanato in data 5 febbraio dal Ministero della Sanità ha definito alcune tabelle indicanti le percentuali di invalidità in relazione al tipo di minorazione. Ogni grado di invalidità, inoltre, assicura l’acquisizione del soggetto di alcune tutele.

Gli individui che accusano una invalidità al 67 per cento hanno una compromissione della capacità lavorativa superiore a due terzi. Intendiamo pertanto complicazioni nello svolgimento di attività o azioni di vita quotidiana abbastanza marcate.

Mediante le pronunce 11656/90 e 17159/2011, la Corte di Cassazione ha confermato che per il diritto al trattamento pensionistico de qua non è sufficiente assolvere a una generica invalidità ma necessita un’invalidità legata allo svolgimento delle prestazioni lavorative.

Il pronunciamento della Corte di Cassazione

Analizzando la pronuncia n. 17159 del 2011, il contenzioso era nato con il rigetto della domanda proposta per ricevere l’agevolazione ai sensi dell’art. n. 222 del 1984. Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Palermo confermava il pronunciamento iniziale. Difatti, come accertato dal CTU, la Corte rilevava che il richiedente, affetto da insufficienza renale cronica, era stato sottoposto a trattamento a trattamento emodialitico trisettimanali, intervento per asportazioni di cisti da echinocco epatica, episodio di insufficienza cardiaca e ipertensione.

La Corte aveva acclarato che il CTU aveva sostenuto che dette patologie non determinavano l’assoluta e permanente impossibilità di svolgere “qualsiasi attività lavorativa”, consentendogli invece di svolgere attività a tempo parziale non usurante. Avverso detta sentenza il reclamante ricorreva con tre motivi.

Ma la Costituzione ha ribadito il pronunciamento dei primi due gradi. Tra i motivi avanzati, la Suprema Corte ha sottolineato che con la Legge n. 222/1984, viene meno il criterio della capacità di guadagno, a favore di quello della capacità lavorativa. Si sono fissate due percentuali divise. Da un lato si è passati dalla considerazione della potenzialità reddituale (idoneità a produrre ricchezza) alla “potenzialità energetica” (determinante essa stessa particolari effetti). Dall’altro, si è delineata una classe di soggetti dalla abilità considerevolmente ridotta. Che, per tale ragione, beneficiano di una prestazione in linea, entro certi limiti, con il reddito da lavoro, volta a renderlo più cospicuo.

Ma non in presenza di “infermità o difetto fisico o mentale” da non aver l’opportunità di svolgere qualsiasi attività lavorativa confacente alle proprie predisposizioni. E che non dia modo di ottenere un certo reddito sufficiente, da valutare in rapporto alla residua capacità lavorativa. Nell’ottica di tali principi, non hanno trovato posto i fattori socio-economici annessi al disagio o impossibilità di inserirsi nel mercato del lavoro.

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